Slovacchia, Zilina – 6 giugno 2013

Conferenza per il Clero

Intervento del Card. Mauro Piacenza

Prefetto della Congregazione per il Clero

 

Carissimi Confratelli e amici,

sono molto lieto di poter condividere con voi questi giorni, legati alla Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù. Giorni, nei quali siamo particolarmente richiamati al mistero profondo della divina Misericordia e, in esso e con esso, alla realtà sacramentale, cioè reale, della nostra configurazione a Cristo Sacerdote.

Sì! Essere sacerdoti significa essere totalmente immersi nel mistero amorevolissimo del Sacro Cuore di Gesù e, perciò, divenire a propria volta segni eloquenti, per l’umanità, di quel medesimo amore, di quella medesima, totale oblazione di sé, che – sola! – può convincere gli uomini, così assetati di significato, di amore e di misericordia.

 

1. Immersi nel Cuore di Gesù

La realtà del Sacro Cuore, negli ultimi decenni, ha subito un duplice, immeritato svilimento. Da un lato, è stata totalmente dimenticata, come se si trattasse di un retaggio spirituale del passato, sentimentalistico e non più in grado di parlare all’uomo moderno e post-moderno. Dall’altro, in forme più circoscritte e più accademiche, se ne è fatta una lettura del tutto intellettualistica, simbolica, astratta e, quindi, incapace di parlare davvero all’uomo concreto, integrale, fatto di anima e corpo, di intelligenza, libertà, volontà e sensi.

Entrambe queste riduzioni non rendono giustizia della realtà del Sacratissimo Cuore. Essa, infatti, partendo dal dato biblico, secondo il quale il cuore rappresenta il nucleo centrale della persona e la sede della sua identità profonda, ci spinge a riconoscere, con l’Evangelista Giovanni, che «Dio è amore» (1Gv 4,8). L’essenza stessa di Dio è amore, è relazione oblativa e, in tal senso, ogni corretta antropologia, ricordando che l’uomo è immagine di Dio, non può che essere una “antropologia dell’amore e della relazione”, antropologia agapica.

Lo stesso Battesimo, che abbiamo ricevuto, è immersione nel mistero dell’Amore di Dio. Con l’Ordinazione sacerdotale, tale immersione acquista una propria, peculiare caratterizzazione, divenendo configurazione a Cristo Capo e portando con sé, necessariamente, l’esigenza dell’annuncio e della missione.

Essere sacerdoti significa, allora, anzitutto essere immersi, quotidianamente e costantemente, nel mistero del Cuore di Gesù. Un Cuore, che, innanzitutto verso ciascuno di noi, è pieno, gonfio di divina Misericordia. Prima di ogni preoccupazione pastorale, pur legittima, è necessario fare costantemente memoria di come la nostra stessa esistenza sacerdotale debba essere accolta, compresa e ricompresa come una immersione permanente nel Sacratissimo Cuore di Gesù.

La stessa configurazione ontologico-sacramentale a Cristo, Sacerdote e Vittima, potrebbe essere letta, per analogia, come configurazione “nel” suo Sacratissimo Cuore e “al” suo Sacratissimo Cuore.

Le fatiche del sacerdote, le sue fragilità umane, psicologiche, e – laddove ci fossero – morali, le nubi, che talvolta si addensano nella sua vita e, perfino, nella sua fede, sono tutte abbracciate ed immerse nel mistero dell’Amore di Cristo, nel mistero di un amore totalmente donato, quindi ferito e, perciò, totalmente capace di abbracciare qualunque realtà.

In questo senso, il Sacro Cuore di Gesù è “reale compagnia” all’esistenza sacerdotale. È la certezza di essere amati da Dio, sempre e comunque. È l’evidenza di una predilezione immeritata, eppure reale; personale ed ecclesiale, nello stesso tempo. La coscienza della insuperabilità dell’amore del Sacratissimo Cuore, nel quale ciascuno è amato totalmente dalla Divinità del Logos e totalmente dall’Umanità di Gesù di Nazareth, in un “compendio d’amore” unico ed irripetibile, e, perciò, salvifico, deve sostenere quotidianamente, anzitutto, la nostra identità e, conseguentemente, la nostra missione.

Nel Cuore di Gesù prende vita ed è amata la stessa Chiesa.

Come dal costato di Adamo, venne tratta Eva, sua sposa, così, dal costato di Cristo, dal suo Cuore trafitto, sgorga la Chiesa, sposa del Figlio e sposa di ciascuno di noi sacerdoti. La Chiesa, che ci ha donato la configurazione battesimale a Cristo, che ci dona la Misericordia divina, che ci dona il Pane del Cielo, sgorga dal costato trafitto del Signore. Noi stessi, come uomini salvati, redenti dall’amore, sgorghiamo dal Cuore di Cristo!

Che gioia, che stupore, che divina soprannaturale meraviglia, destarsi al mattino e sapere che quel tratto di esistenza, che io sono, che quella persona, che io sono, sgorga dal Cuore trafitto di Cristo! Senza questa coscienza essere sacerdoti è semplicemente impossibile. O siamo in grado di recuperare l’altissimo tenore teologico e spirituale della nostra configurazione ontologico-sacramentale a Cristo Sacerdote, o ci autocondanniamo a divenire funzionari del sacro, totalmente insignificanti per il mondo e, ancor più, gravemente insignificanti per la nostra stessa vita.

Dal costato di Cristo, abbiamo detto, sgorga la Chiesa, che è, per sua natura, innanzitutto una realtà soprannaturale, che vive nella storia. La Chiesa prolunga, nel tempo, la Presenza stessa del Risorto; è, analogamente a lui, totalmente divina e totalmente umana, e domanda di essere guardata, valutata e amata a partire da questa integra identità, evitando sia pericolosi ed unilaterali spiritualismi, sia ingenerosi e mondani riduzionismi sociologici.

Come Cristo è Sposo della Chiesa, anche noi sacerdoti siamo chiamati a questa sponsalità. Non saremo, fino in fondo, sposi della Chiesa, se non accettiamo di avere il cuore trafitto dall’amore. Solo l’immedesimazione con Cristo Crocifisso e trafitto permette l’accadere di quella mistica sponsalità, che è la ragione ultima di ogni esistenza sacerdotale, di ogni fatica pastorale, di ogni consumazione per l’unità, nell’ottica del consummati in unum.

L’immersione nel Cuore misericordiosissimo di Cristo, l’immedesimazione con questo Cuore, la coscienza che da esso sgorghi la Chiesa e, con essa, la nostra stessa personalità sacerdotale, rappresentano il grande orizzonte di riferimento, nel quale vivere e celebrare la Solennità del Sacratissimo Cuore.

Essere sacerdoti “secondo il Cuore di Dio”, significa essere sacerdoti secondo il Sacratissimo Cuore di Gesù, poiché è quello il Cuore di Dio!

 

2. Segni dell’amore di Dio

L’immersione nel mistero dell’Amore, che rifulge nel Sacratissimo Cuore, definisce, in modo preciso ed oggettivo, la nostra sacerdotale identità. Tale immersione porta con sé alcune caratteristiche, che sono intimamente collegate al mistero stesso del Cuore di Gesù. Tra le tante, desidero sottolinearne tre, in particolare: la dimensione comunionale, la dimensione oblativa e la dimensione mariana.

La dimensione comunionale dell’immersione nel Sacratissimo Cuore di Gesù, si documenta, progressivamente, in un’esistenza sacerdotale capace di riconoscere, in ciascuno dei fratelli, una goccia del Sangue sgorgato dal Cuore di Cristo, cuius una stilla totum mundum salvum facere.

In ciascun battezzato, che incontriamo sul nostro cammino, e, in modo ancora più evidente, in ciascun sacerdote, nostro confratello, siamo chiamati a riconoscere un “altro amato”, uno per il quale Cristo ha versato il suo sangue, uno che Cristo vuole immerso nel suo Cuore, per saziarne la fame di amore, esattamente come il Signore fa per ciascuno di noi.

La comunione e l’unità non sono l’esito di uno sforzo umano, né il raggiungimento di un precario equilibrio, frutto di umani e diplomatici compromessi. Questo vale per i rapporti con il mondo, per le relazioni con chi non è di Cristo!

Direbbe Gesù: «Tra voi, però, non sia così»! (Mc 10,43). La comunione cristiana e sacerdotale nasce da un avvenimento di grazia, nasce dal Sangue sgorgato dal Cuore trafitto di Cristo, dalla coscienza di essere immersi nel Sangue e, perciò, lavati da ogni colpa, di essere rivestiti della veste candida della grazia e pronti per le nozze con l’Agnello. L’elemento comunionale è sempre, innanzitutto, attorno a Gesù Cristo: l’essere in comunione con lui è l’indispensabile premessa per poter essere in comunione tra di noi. Solo la comunione con Dio permette la comunione con gli altri uomini; solo la comunione con il Cuore di Cristo dona la forza di amare tutti, di amare ciascuno, di amare sempre perché allora amiamo con il “Suo” Cuore.

Una dimensione comunionale, che diviene anche, necessariamente, ecclesiale. La comunione, con la Chiesa e nella Chiesa, è radicata nella sponsalità tra il Risorto e l’Amata, nella sponsalità tra ciascuno di noi e la Chiesa, Sposa del Sommo Sacerdote e Sposa di ciascun sacerdote.

La comunione ecclesiale, che diviene anche concreta comunione gerarchica, è, come la Chiesa e come Cristo, totalmente umana – con tutte le fatiche, che da ciò possono derivare – e totalmente soprannaturale – con tutta la libertà, la certezza e la letizia, che da tale ancoraggio soprannaturale, sempre derivano. Laddove tale ancoraggio viene meno, laddove si perdono le ragioni della comunione, laddove l’esperienza dell’immersione nell’amore divino diviene soltanto il ricordo emotivo del passato e non è realtà presente, che accade qui e ora, la comunione può divenire difficile e il dono dell’unità, che Cristo sempre ci fa, può perfino essere rifiutato.

La concreta comunione gerarchica, poi, lungi dall’essere considerata una “sovrastruttura”, è la reale misura del nostro vivere la comunione. Una comunione che diviene concreta obbedienza alla Chiesa, in quanto tale, intesa nella sua profonda unità storica, di fede, dottrinale e giuridica, e che, nelle concrete circostanze di luogo e di tempo, si traduce nella fedele obbedienza al Vescovo, il quale, a sua volta deve essere esempio di fedele obbedienza al Papa.

Anche questo atteggiamento di obbedienza, lungi dall’essere semplicemente formale, o giuridico, ha profonde ragioni teologiche e reali conseguenze spirituali. Nella concreta obbedienza al Vescovo, è perennemente rinnovata la verità della propria Vocazione e la garanzia di vivere ed operare nella volontà divina. Nel contempo, la medesima concreta obbedienza diviene “via maestra”, per percorrere con frutto i sentieri della carità pastorale, che, priva di questo elemento comunionale e gerarchico, rischia sempre di ridursi a soggettiva e improvvisata creatività.

In questa concezione della comunione e della conseguente obbedienza, è sempre necessario vigilare sul concetto e sulla concreta prassi, che ciascuno vive in ordine al rapporto con la cultura dominante e, in particolare, con la modernità. Essere “moderni”, infatti, non significa, in alcun caso, ferire la comunione, o vivere in modo arbitrario l’obbedienza, ma, al contrario, ciò che realmente ci rende alternativi al mondo – e per questo, profetici – è la reale e profonda unità con Cristo, dal rapporto col quale deriva ogni fecondità pastorale.

Essere preti moderni non significa reinventare la fede ad ogni omelia, o immaginare una chiesa diversa, nelle sue strutture essenziali, da quella che Cristo Signore ha istituito. Essere moderni significa, al contrario, essere contemporanei di Cristo, cioè vivere, ogni istante, alla sua Presenza. Solo chi vive alla sua Presenza, riempito del suo Amore, è capace anche di quella sana creatività, rispettosissima della verità e capace di andare incontro ad ogni fedele.

Le nostre comunità ce lo domandano. Dal più piccolo dei villaggi, alla più popolosa parrocchia di città, i nostri fedeli desiderano incontrare testimoni credenti e, perciò, credibili, che siano, essi per primi, segni riconoscibili della soprannaturale comunione divina. In tal senso, è chiesto al sacerdote un supplemento di discernimento, per saper riconoscere quanto, della cultura moderna e contemporanea, è profondamente evangelico e, perciò, recepibile ed assimilabile, e quanto, invece, è radicalmente antievangelico e, dunque, del tutto incompatibile con la fede cristiana e con la vita sacerdotale.

Un esempio valga per tutti: il concetto di libertà. Mentre esso è profondamente evangelico e Cristo stesso lo lega alla verità, affermando: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32), è sotto gli occhi di tutti come la cultura contemporanea viva e proponga una concezione distorta della libertà, illudendo le giovani generazioni e, di fatto, separandole da Dio. Essere davvero moderni significa saper vivere, in questo tempo, la profonda sfida posta da una cultura, che mette l’uomo al centro, accogliendo, per quanto possibile, tale centralità, ma riconoscendo che essa è, comunque, sempre, relativa a Dio.

Più che cogliere le sfide della modernità, dobbiamo essere capaci, con la forza del Vangelo, di sfidare noi la modernità, e nulla è più “provocante” l’intelligenza e la libertà umane della radicale e permanente appartenenza a Cristo, un’appartenenza visibile, della quale è possibile fare concreta esperienza, proprio attraverso il Corpo della Chiesa.

La libertà autentica si documenta come reale appartenenza a Dio, alla Chiesa e come personale assimilazione dei criteri di giudizio del Vangelo. È necessario essere liberi da qualsiasi condizionamento dei mezzi di comunicazione, che non sono il nostro ultimo tribunale! Quello sarà Dio! L’essere davvero alternativi alla cultura dominante ci rende straordinariamente vicini al nostro popolo, ci renderà capaci di dialogare con credenti e non credenti, sosterrà la responsabilità nei confronti delle anime a noi affidate e, proprio nella radicalità del nostro essere alternativi al mondo, guadagneremo la profonda stima, soprattutto, dei giovani.

Per fare questo è necessaria una profonda comunione soprannaturale ed un autentico atteggiamento oblativo, la capacità cioè di offrire tutto di se stessi. Così ci siamo già introdotti nel secondo dato della comunione, che è quello oblativo. La missione sacerdotale, infatti, non può che essere vissuta sull’esempio di Cristo, come ferma volontà di donazione di sé. «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). Il vivere nella consapevolezza di essere immersi nel Sacratissimo Cuore di Gesù e, ancor più, di essere stati configurati ad esso, ci spinge a quella imitatio Christi, che investe la stessa dimensione oblativa, fino alla morte e alla morte di Croce.

Ciascun sacerdote dovrebbe vivere con una ferita nel cuore, una ferita permanentemente aperta, “che non si rimargini se non in Cielo”.

Fino a quando ci sarà anche un solo uomo che non ha conosciuto Cristo, l’anelito del sacerdote è di annunciarglielo, di introdurre quell’uomo nel Cuore di Dio, perché anch’egli possa godere, sin d’ora, di quell’amore soprannaturale ed eterno, che è donato a noi in Gesù Cristo.

Non c’è dimensione oblativa più efficace di quella legata alla volontà ferma di amare. Gesù stesso, nell’orto degli ulivi, prega: «Non mea sed tua fiat», in una configurazione perfetta alla volontà del Padre, che è il coronamento del suo essere filiale.

Quando non obbediamo alla volontà di Dio, ecclesialmente mediata, prima e molto più radicalmente che essere disobbedienti, rischiamo di ferire la nostra stessa identità cristiana e sacerdotale. Se non facciamo la volontà di Dio, rischiamo di essere “meno figli”, poiché il Figlio è colui che compie perfettamente la volontà del Padre.

Il primo luogo, in cui si rinnova perfettamente l’oblazione del Figlio e nel quale si impara a vivere un’esistenza perfettamente conformata alla Volontà del Padre è l’Eucaristia. Il comando del Signore «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19), diviene legge per il sacerdote, orizzonte di permanente rinnovamento della comunione e dell’oblazione. Il “banchetto” eucaristico ed il “sacrificio” eucaristico sono il reale, quotidiano rinnovarsi della nostra immersione nel Cuore di Cristo e della nostra partecipazione alla sua offerta salvifica.

Dobbiamo sempre ricordare, carissimi Fratelli, che la possibilità di essere immersi nell’amore del Sacratissimo Cuore è aperta da una lancia, che trafigge un Corpo crocifisso. La Croce, allora, abominio di desolazione, diviene altare, talamo nel quale si consumano le mistiche nozze dell’Agnello, nel quale la Sposa e lo Sposo, la Chiesa e Cristo, sono per sempre una cosa sola. Talamo, dal quale sgorga l’intera vita sacramentale della Chiesa, dal quale sgorga lo stesso nostro Sacerdozio e, con esso, ogni Celebrazione eucaristica ed ogni riconciliazione sacramentale.

Per noi sacerdoti, la dimensione oblativa, come efficacemente ci ricorda, in molti suoi interventi, Papa Francesco, diviene dimensione missionaria. L’anelito per la missione, lo zelo per le anime, l’ansia, la febbre di annunciare il Vangelo – «Guai a me se non annunciassi il Vangelo» direbbe San Paolo – sono la misura della nostra identità oblativa.

L’essere sacerdoti si rinnova proprio nell’oblazione. Come ha ricordato, nella Messa crismale di quest’anno, Papa Francesco, l’unzione che riceviamo non è per noi, ma per ungere i fratelli. Analogamente, potremmo parafrasare, affermando: l’amore che riceviamo dal Sacratissimo Cuore di Cristo non è solo per noi, ma per amare i fratelli e amarli significa condurli al Cuore di Gesù. Quanto più saremo immersi nell’amore di Cristo, tanto più oblativa sarà la nostra esistenza, tanto più il nostro stile sarà pastorale e tanto più saremo “moderni” della vera modernità che è ben lontana dall’essere mondanità. Si è moderni, cioè all’altezza delle situazioni della gente soltanto quando si è “cristici” perché solo Gesù Cristo è la pienezza dei nostri cuori, solo Lui è la realizzazione di ogni uomo. Esistenza dunque oblativa e comunionale. Oblativa, comunionale e mariana.

Accanto al Sacratissimo Cuore di Gesù – ben lo sappiamo –, la Chiesa ci invita a contemplare il Cuore addolorato ed immacolato di Maria Santissima. La Sposa che sgorga dal costato di Cristo è la Chiesa; e l’Icona perfetta della Chiesa, senza ruga e senza macchia, è Maria Santissima. La Beata Vergine Maria è immacolata in vista dei meriti di Cristo sulla Croce e, dunque, il suo purissimo Cuore è in intima e discendente relazione con il Sacratissimo Cuore di Gesù. È Cuore di Madre, amorevolissima e dolorosa.

È Mater dolorosa proprio sotto la Croce, quando il Cuore del Figlio viene trafitto, e, da questa partecipazione al mistero della Redenzione che il Figlio attua per l’umanità, deriva la partecipazione del dolore della Madre al dolore del Figlio. La traduzione visibile di tale partecipazione è il suo Cuore.

Esso è l’unico Cuore umano, che ha potuto essere perfettamente colmato dell’Amore divino trinitario. Tutte le generazioni cantano Beata la Santa Vergine, poiché lei è la Kekaritomène, la piena di grazia, la colmata dell’amore divino. Un amore che, in nessuno come in Maria, rifulge nelle dimensioni comunionali e oblative, alle quali, come sacerdoti, siamo permanentemente chiamati a guardare, per implorare dalla Santa Vergine, che ci stringa al suo Cuore Immacolato e trafitto, per plasmare i nostri cuori sul modello del Sacratissimo Cuore del suo Figlio, perché il Cuore sacerdotale del Figlio diventi il cuore di ciascun sacerdote, per la salvezza propria e del mondo intero.